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Intervista ad Aldo Cibic
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“La mia formazione è quella di un designer che approda all’architettura allargando lo sguardo dagli oggetti ai comportamenti umani, e da questi ai luoghi dove avvengono le attività delle persone. La ricerca non è casuale, intuitiva, ma guidata dalla realtà. La mia ricerca è sui luoghi, le interazioni sociali”.

L’anima di Aldo Cibic e la sua essenza progettuale sono racchiuse in queste poche, dense parole.

La volontà di allargare il campo d’azione rispetto ai confini canonici del design e dell’architettura ha da sempre rappresentato il motore della progettualità di Aldo Cibic: il suo interesse vira dall’oggetto alle azioni delle persone. Quindi non più design di cose, ma design di attività, comportamenti, servizi. Sono le azioni delle persone che generano i luoghi e non viceversa. Una consapevolezza nata e cresciuta durante gli anni, in tempi non sospetti, quando la formula “design dei servizi” era sconosciuta ai più. Ma le etichette non piacciono ad Aldo, tanto varia e trasversale è (ed è stata) la sua attività progettuale accompagnata, sempre, da un entusiasmo puro e cristallino. Andrea Branzi [Interni, dicembre 2005] ammira il fatto che Aldo ha sempre conservato “l’elasticità, la potenza, l’imprevedibilità di una sorta di infanzia progettante” dando origine a un “design che inventa domande, descrivendo una potenzialità latente a realizzare un mondo diverso (se non migliore).” Domande, non risposte, quindi. Le risposte sono gli uomini, i loro comportamenti, i loro pensieri, le dinamiche sociali che si creano in eterno mutamento.

Ciò che muove Aldo Cibic è l’osservazione della realtà, capire verso che mondo andare e quindi cosa si configura. La contemporaneità significa cavalcare il tempo che si sta vivendo, capire cosa succederà nella situazione fluida in cui ci troviamo.

“Non riesco a dare senso al mio lavoro se non parto dall’innovazione sociale. Oggi bisogna essere molto più informati e usare le informazioni per produrre bellezza da condividere”.

Dall’esperienza con Ettore Sottsass ha ereditato il vizio di progettare per realizzare utopie, piuttosto che per ragioni commerciali, fedele al principio di compiacere non il mercato ma le sue visioni.

Continua a disegnare per produrre vitalità, per far germogliare semi che favoriscano lo scambio, per creare spazi che mettano in relazione le persone, risvegliando i loro sensi sopiti, per migliorare ammorbidire e umanizzare gli ambienti e le cose. E per farlo si dispone all’ascolto, soprattutto dei giovani.

“La vera salvezza è la progettualità. Ovvero creare la possibilità per ognuno di noi, professionisti, imprenditori, amministratori, di agire in una griglia comune, partecipare a un progetto condiviso che abbia come centro l’uomo. Produrre valore è diventato un lavoro: creare un’attitudine a imparare a essere disponibili, solidali. La grande sfida è quella di creare una visione comune.”

Ponendo al centro l’individuo con il suo complesso sistema di relazioni, l’obiettivo di Aldo è proporre uno stile di vita virtuoso all’interno di una visione globale fatta di solidarietà e condivisione. Non è un caso infatti che Aldo abbia scelto Lombardini22 come propria casa milanese.

Un excursus sulle sue riflessioni e ricerche metaprogettuali, spesso condotte con una rete internazionale di università, dalla Domus Academy alla Tongji University di Shanghai, tratteggia con chiarezza la visione, molto sentita e molto umana, di Aldo.

Nel 1995 Family Business, ricerca condotta con Erin Sharpper per The Solid Side, Domus Academy e Philips Design, propone un osservatorio sul cambiamento della società e sulla necessità di ripartire da nuove soluzioni sociali e abitative. La ricerca ha considerato i comportamenti delle persone e delle famiglie nella vita di ogni giorno (attività, relazioni interpersonali, oggetti e ambienti) e ha proposto nuovi spazi ibridi tra casa e lavoro.

La considerazione della ricerca parte dal fatto che nella società industriale tende sempre di più a parcellizzare e a dividere la quotidianità degli individui: il tempo della famiglia, del lavoro, dello svago. Un’atomizzazione che tende a creare dei non luoghi, sempre più vuoti di vero significato. Lo studio realizza un inventario di valori dai quali ripartire per costruire nuovi spazi dedicati all’uomo e alla sua vita.

“La transizione verso la sostenibilità può innescare nuove forme di comunità: la cura dei beni comuni richiede intenti e attenzioni comuni. E, d’altra parte, la ricerca della sostenibilità può costituire il valore condiviso su cui produrre legame sociale.”

Agli inizi degli anni Duemila, il progetto combinato insieme a diverse università New stories new design ha dato origine al primo manifesto sul design di servizi. Un design che va oltre l’oggetto e propone opportunità di sviluppo sociale attraverso nuove iniziative occupazionali, esplorando la possibilità di utilizzare strumenti di progettazione per interpretare le relazioni sociali all’interno della città.

Sullo stesso binario di ricerca anche il progetto del 2004 Microrealities che propone

“visioni in cui, attraverso la riorganizzazione di potenzialità ed energie, si favoriscono le condizioni per attivare occasioni diincontro, di scambio, di condivisione che caratterizzano i momenti di vita collettiva”.

L’uso dell’architettura è chiaro, propositivo, concreto, lontano dalle utopie.

L’indagine progettuale osserva l’ambiente costruito a partire da un altro punto di vista e da una diversa scala. Al centro è l’individuo, con il suo complesso sistema di relazioni, con la sua capacità di immaginare e inventare, di scoprire il nuovo e di approfittare delle opportunità dei cambiamenti. Fino a ripensare all’idea stessa di felicità. Rethinking Happiness – nuove realtà per nuovi modi di vivere è del 2010. Significativo il claim “Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”.

Il design può essere uno strumento di innovazione sociale? Può dare risposte a nuovi bisogni emergenti? Può, in altre parole, essere uno strumento di liberazione?

Sono le domande che muovono Freedom Room, laboratorio del 2013 sul design in carcere, progetto nato dalla collaborazione tra Aldo Cibic, Tommaso Corà e Marco Tortoioli Ricci con una delle carceri di massima sicurezza italiane, la Casa Circondariale di Spoleto. Ne sono derivati un nuovo concetto di ospitalità, un modulo abitativo essenziale, a basso costo, pensato con i detenuti e prodotto in carcere, una proposta/prodotto, una mostra, una installazione per l’ospitalità temporanea e sociale. Il modulo Freedom Room può diventare motore di nuove dinamiche sociali destinate a reinventare l’idea di comunità e di quartiere.

Infine, (In)complete (2017, in progress) è la prima indagine in costante evoluzione, a livello mondiale, basata sulla comunità ed eternamente (in)completa dei nostri atteggiamenti nei confronti del mondo che ci circonda.

È una piattaforma in open source, un produttore di dati che possono servire a ispirare strategie per attivare nuove aree di progetto. È un’indagine sulla vita e sul design, è uno strumento per capire meglio, attraverso i dati raccolti, lo spirito del tempo in cui viviamo. È un “design process” connesso all’intelligenza collettiva, che attraverso le domande – sunatura, società e nuove tecnologie – aiuta a capire cosa può aver senso fare per poter sognare e progettare un futuro sostenibile. Il senso della ricerca è spostare il paradigma di quello cui siamo abituati.

DI OGNUNO

Dal progetto DI OGNUNO (scopri di più sulla Reception di Ognuno), nato da un’iniziativa di HospitalityRiva in collaborazione con Lombardini22 con Village for all - V4A® Ospitalità Accessibile, nasce un documento digitale che accompagna in un viaggio nel mondo dell’ospitalità accessibile e della progettazione universale nel settore dell’accoglienza, alla ricerca di risposte e soluzioni per la creazione di spazi e servizi che rispondano alle esigenze DI OGNUNO.

Scopri l'Universal Design nell'ospitalità

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“La mia formazione è quella di un designer che approda all’architettura allargando lo sguardo dagli oggetti ai comportamenti umani, e da questi ai luoghi dove avvengono le attività delle persone. La ricerca non è casuale, intuitiva, ma guidata dalla realtà. La mia ricerca è sui luoghi, le interazioni sociali”.

L’anima di Aldo Cibic e la sua essenza progettuale sono racchiuse in queste poche, dense parole.

La volontà di allargare il campo d’azione rispetto ai confini canonici del design e dell’architettura ha da sempre rappresentato il motore della progettualità di Aldo Cibic: il suo interesse vira dall’oggetto alle azioni delle persone. Quindi non più design di cose, ma design di attività, comportamenti, servizi. Sono le azioni delle persone che generano i luoghi e non viceversa. Una consapevolezza nata e cresciuta durante gli anni, in tempi non sospetti, quando la formula “design dei servizi” era sconosciuta ai più. Ma le etichette non piacciono ad Aldo, tanto varia e trasversale è (ed è stata) la sua attività progettuale accompagnata, sempre, da un entusiasmo puro e cristallino. Andrea Branzi [Interni, dicembre 2005] ammira il fatto che Aldo ha sempre conservato “l’elasticità, la potenza, l’imprevedibilità di una sorta di infanzia progettante” dando origine a un “design che inventa domande, descrivendo una potenzialità latente a realizzare un mondo diverso (se non migliore).” Domande, non risposte, quindi. Le risposte sono gli uomini, i loro comportamenti, i loro pensieri, le dinamiche sociali che si creano in eterno mutamento.

Ciò che muove Aldo Cibic è l’osservazione della realtà, capire verso che mondo andare e quindi cosa si configura. La contemporaneità significa cavalcare il tempo che si sta vivendo, capire cosa succederà nella situazione fluida in cui ci troviamo.

“Non riesco a dare senso al mio lavoro se non parto dall’innovazione sociale. Oggi bisogna essere molto più informati e usare le informazioni per produrre bellezza da condividere”.

Dall’esperienza con Ettore Sottsass ha ereditato il vizio di progettare per realizzare utopie, piuttosto che per ragioni commerciali, fedele al principio di compiacere non il mercato ma le sue visioni.

Continua a disegnare per produrre vitalità, per far germogliare semi che favoriscano lo scambio, per creare spazi che mettano in relazione le persone, risvegliando i loro sensi sopiti, per migliorare ammorbidire e umanizzare gli ambienti e le cose. E per farlo si dispone all’ascolto, soprattutto dei giovani.

“La vera salvezza è la progettualità. Ovvero creare la possibilità per ognuno di noi, professionisti, imprenditori, amministratori, di agire in una griglia comune, partecipare a un progetto condiviso che abbia come centro l’uomo. Produrre valore è diventato un lavoro: creare un’attitudine a imparare a essere disponibili, solidali. La grande sfida è quella di creare una visione comune.”

Ponendo al centro l’individuo con il suo complesso sistema di relazioni, l’obiettivo di Aldo è proporre uno stile di vita virtuoso all’interno di una visione globale fatta di solidarietà e condivisione. Non è un caso infatti che Aldo abbia scelto Lombardini22 come propria casa milanese.

Un excursus sulle sue riflessioni e ricerche metaprogettuali, spesso condotte con una rete internazionale di università, dalla Domus Academy alla Tongji University di Shanghai, tratteggia con chiarezza la visione, molto sentita e molto umana, di Aldo.

Nel 1995 Family Business, ricerca condotta con Erin Sharpper per The Solid Side, Domus Academy e Philips Design, propone un osservatorio sul cambiamento della società e sulla necessità di ripartire da nuove soluzioni sociali e abitative. La ricerca ha considerato i comportamenti delle persone e delle famiglie nella vita di ogni giorno (attività, relazioni interpersonali, oggetti e ambienti) e ha proposto nuovi spazi ibridi tra casa e lavoro.

La considerazione della ricerca parte dal fatto che nella società industriale tende sempre di più a parcellizzare e a dividere la quotidianità degli individui: il tempo della famiglia, del lavoro, dello svago. Un’atomizzazione che tende a creare dei non luoghi, sempre più vuoti di vero significato. Lo studio realizza un inventario di valori dai quali ripartire per costruire nuovi spazi dedicati all’uomo e alla sua vita.

“La transizione verso la sostenibilità può innescare nuove forme di comunità: la cura dei beni comuni richiede intenti e attenzioni comuni. E, d’altra parte, la ricerca della sostenibilità può costituire il valore condiviso su cui produrre legame sociale.”

Agli inizi degli anni Duemila, il progetto combinato insieme a diverse università New stories new design ha dato origine al primo manifesto sul design di servizi. Un design che va oltre l’oggetto e propone opportunità di sviluppo sociale attraverso nuove iniziative occupazionali, esplorando la possibilità di utilizzare strumenti di progettazione per interpretare le relazioni sociali all’interno della città.

Sullo stesso binario di ricerca anche il progetto del 2004 Microrealities che propone

“visioni in cui, attraverso la riorganizzazione di potenzialità ed energie, si favoriscono le condizioni per attivare occasioni diincontro, di scambio, di condivisione che caratterizzano i momenti di vita collettiva”.

L’uso dell’architettura è chiaro, propositivo, concreto, lontano dalle utopie.

L’indagine progettuale osserva l’ambiente costruito a partire da un altro punto di vista e da una diversa scala. Al centro è l’individuo, con il suo complesso sistema di relazioni, con la sua capacità di immaginare e inventare, di scoprire il nuovo e di approfittare delle opportunità dei cambiamenti. Fino a ripensare all’idea stessa di felicità. Rethinking Happiness – nuove realtà per nuovi modi di vivere è del 2010. Significativo il claim “Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”.

Il design può essere uno strumento di innovazione sociale? Può dare risposte a nuovi bisogni emergenti? Può, in altre parole, essere uno strumento di liberazione?

Sono le domande che muovono Freedom Room, laboratorio del 2013 sul design in carcere, progetto nato dalla collaborazione tra Aldo Cibic, Tommaso Corà e Marco Tortoioli Ricci con una delle carceri di massima sicurezza italiane, la Casa Circondariale di Spoleto. Ne sono derivati un nuovo concetto di ospitalità, un modulo abitativo essenziale, a basso costo, pensato con i detenuti e prodotto in carcere, una proposta/prodotto, una mostra, una installazione per l’ospitalità temporanea e sociale. Il modulo Freedom Room può diventare motore di nuove dinamiche sociali destinate a reinventare l’idea di comunità e di quartiere.

Infine, (In)complete (2017, in progress) è la prima indagine in costante evoluzione, a livello mondiale, basata sulla comunità ed eternamente (in)completa dei nostri atteggiamenti nei confronti del mondo che ci circonda.

È una piattaforma in open source, un produttore di dati che possono servire a ispirare strategie per attivare nuove aree di progetto. È un’indagine sulla vita e sul design, è uno strumento per capire meglio, attraverso i dati raccolti, lo spirito del tempo in cui viviamo. È un “design process” connesso all’intelligenza collettiva, che attraverso le domande – sunatura, società e nuove tecnologie – aiuta a capire cosa può aver senso fare per poter sognare e progettare un futuro sostenibile. Il senso della ricerca è spostare il paradigma di quello cui siamo abituati.

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