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Il Retail è un film
28/6/2018
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Ieri si è svolto l'evento "Retail Players. La dimensione urbana del Retail", il terzo evento del ciclo culturale Players che ha visto protagonisti Vilma Scarpino, Amministratore delegato e socia di Doxa Spa e Massimo Moretti, Presidente CNCC – Consiglio Nazionale Centri Commerciali, moderati da Adolfo Suarez.

Si è parlato di come oggi sia necessario riunire professionisti multidisciplinari per analizzare, comprendere e rispondere ai bisogni complessi delle persone e della città, creando esperienze coinvolgenti in cui accoglienza, qualità degli spazi, comfort e semplicità sono guidati dal valore assoluto della bellezza.

Origini

Sembrano lontani i tempi di Victor Gruen, l’ideatore riconosciuto del centro commerciale moderno (nel cui studio fece la “gavetta” Frank O. Gehry, così per dire). Gruen progettò all’inizio degli anni 1950 il Southdale Center, a Edina (Minnesota): un complesso formato da un grande parcheggio e da una struttura coperta che conteneva 72 vetrine e due grandi magazzini con funzione di àncore primarie (Donaldson’s e Dayton’s). La sua particolarità era che fino ad allora i centri commerciali erano “estroversi” e proiettavano vetrine e ingressi anche all’esterno, mentre Southdale aveva pareti cieche verso il parcheggio e tutte le attività erano focalizzate su gallerie interne (mall) climatizzate, il tutto sotto un unico tetto. L’intento di Gruen, architetto austriaco di origini ebraiche emigrato in America nel 1938, era quello di creare ciò che nella città americana all’epoca mancava: un organico effetto città (nel senso della città europea da cui lui proveniva), un contesto in cui le funzioni commerciali e urbane si mescolassero producendo un unicum originale. “Gruen ha riportato tutte le funzioni all’interno del manufatto, le ha collegate e le ha fatte vivere in simbiosi” – come dice, in una lusinghiera recensione del libro Progettare il Retail di Lombardini22, il direttore di RetailWatch Luigi Rubinelli, il quale sostiene che ancora oggi “Questa è la lezione del futuro dei centri commerciali”.

Crisi

Southdale è storicamente considerato il primo centro commerciale come oggi lo intendiamo. Ma proprio quel modello sembra oggi attraversare una profonda crisi. Lo stesso Victor Gruen disconoscerà in tarda età gli effetti della sua creazione, effetti “disurbanizzanti” (era il paradosso di cui si rammaricava) dei quali il suo modello architettonico non fu forse la causa diretta – poiché aveva nel DNA molti elementi del “fare città” – mentre lo fu più probabilmente tutta una serie di politiche urbanistiche e territoriali su cui i centri commerciali si sono innestati come ripetizione di una formula irrigidita. Così, decenni di storia dei centri commerciali ci hanno spesso restituito l’immagine di luoghi contrapposti alla città, artifici suburbani, simulazioni fantasmagoriche a rivestimento di una complessità di vita la cui unica ragion d’essere era lo shopping.

Da tempo negli USA si parla di “Retail Apocalypse”, un fenomeno che una recente analisi di Cushman & Wakefield sembra confermare anche per il 2018, anno in cui si prevede una crescita delle chiusure di negozi del 33% rispetto all’anno precedente. Una crisi che sembra investire anche l’Europa.

  “Il modello MALL è stato importato dagli Stati Uniti e ora ne stiamo importando il declino – dice Vilma Scarpino di Doxa, prima società a capitale italiano, per dimensioni e fatturato, di ricerche di mercato – e le ragioni del declino sono numerose, forse la più interessante riguarda l'impatto che il commercio elettronico ha sulle nostre abitudini di consumo.

Tempo fa, un titolo di Le Monde recitava: “Hypermarchés: le décline du modèle français”. Un recente reportage di Sky TG24 (del 5 maggio 2018) ha fatto un resoconto implacabile della situazione di alcune realtà locali italiane, soprattutto appartenenti al territorio bresciano, dove alcuni fallimenti sembrano però dovuti a errate valutazioni preliminari sulla localizzazione e sui bacini di utenza. Oppure, come spiega Alessio Merigo, direttore della Confesercenti di Brescia, perché dietro molte nuove aperture c’è spesso una mancata armonizzazione tra l’interesse commerciale e l’interesse edilizio, lasciando quest’ultimo prevalere.

Nuove formule

Oggi sappiamo che non può più essere così. I centri commerciali che perseverano in vecchie formule – generaliste, per esempio, e centrate sull’àncora del supermercato – sono destinati all’insuccesso. Le nuove formule che stanno emergendo nei centri di nuova generazione vedono in piena espansione altri ambiti, e i centri esistenti si stanno trasformando. Da qualche anno sui “tavoli da disegno” dei progettisti (se così si può dire) passano prevalentemente ristrutturazioni e/o ampliamenti legati alla riduzione dei supermercati e alla conseguente estensione di Food Hall e aree di intrattenimento: il Food sta raggiungendo mediamente il 25/35% della superficie; il Leisure (cinematografi, FEC, bowling ecc.) intorno al 25/30%; sta crescendo sempre più la parte dei Servizi (postali, farmacie, ambulatori, dentisti e, in un vicino futuro, studi professionali e anche, molto prevedibilmente, luoghi di culto e così via); le aree destinate al puro shopping subiscono una conseguente flessione. L’ultimo Mapic di Cannes, in questo senso, è stato una cartina di tornasole: lo shopping non è più il dominatore.

Cosa significa? Che il “centro commerciale”, così come lo abbiamo conosciuto finora, non esiste più e si sta trasformando sempre più in esperienza (tanto che si potrebbe anche pensare di cambiarne la definizione).

 “I centri commerciali (che non vorrei chiamare più cosi in futuro, mi sembra un nome superato) o meglio i Life Style Centers possono essere le nuove piazze, capaci di rivitalizzare e cucire settori di città: luoghi belli, puliti e sicuri dove ci si incontra, si fanno esperienze e si decide di passare del tempo”. Così afferma Massimo Moretti, Presidente CNCC.
Massimo Moretti

Sembra, quindi, che stia recuperando la dimensione del luogo (della vicinanza, della relazione, della qualità ‘atmosferica’ aldilà del puro acquisto), riducendo in questo modo quella distanza che lo ha separato, nell’immaginario comune, dalla città. E alla città, infatti, in varie forme ritorna.

 “Alcune grandi città metropolitane (Londra su tutte) stanno riprogettando le proprie stazioni (ferroviarie e metropolitane), per aiutare il flusso dei pendolari-compratori che acquistano online ogni genere di bene durante il viaggio di andata, la mattina presto, e ritirano la merce prima del viaggio di ritorno, nel tardo pomeriggio. In questo caso, l'esperienza di acquisto si fonde con la mobilità e impone nuovi riferimenti: accessibilità, sostenibilità, personalizzazione estrema”. Così riporta Vilma Scarpino, che proseguendo su Milano dice: “A Milano sono sempre più numerosi i single che sfruttano l'efficienza dei servizi di consegna a domicilio, come Amazon Prime Now, che garantisce la delivery in un’ora (oppure in fasce orarie prestabilire) di tutto quello che si può acquistare in un supermercato. Sempre a Milano, CityLife conferma la necessità di integrare lo shopping con un’esperienza di acquisto che sfoci nel ludico (parco pubblico, ampia scelta di ristoranti) e nel culturale (multisala)”.
Vilma Scarpino

Integrando diversi livelli di esperienza, il centro commerciale (se così vogliamo continuare a chiamarlo) deve diventare un condensatore sociale che assomigli sempre di più alla città stessa, fino a coincidere con essa. Rispondendo così a un fenomeno complesso: declino del “puro shopping”, impatto del commercio elettronico, problemi di localizzazione e dei bacini di utenza, necessità di armonizzare interessi commerciali ed edilizi (ed altro ancora). Emerge un doppio movimento: i grandi contenitori (più o meno suburbani) diventano sempre più complessi a livello funzionale e sociale; i nuovi sistemi retail (urbani) diventano veri e propri “pezzi di città”, cercando la massima porosità e permeabilità con il tessuto urbano circostante; mentre in tutti i casi si lasciano attraversare da nuove forme di comportamento.

Come agire di fronte a questo nuovo scenario?

In che modo decostruire vecchi format e progettarne di nuovi, integrati con la città e con la sua linfa vitale, affinché possano acquisire una dimensione “realmente” urbana (e non un surrogato)? E come contribuire a fare della città una “Retail Destination” attrattiva?

“Proviamo a partire dalla definizione originaria di centro commerciale - suggerisce Vilma Scarpino - ovvero un aggregato di negozi che diventano un edificio all’interno del quale le persone vanno a comprare.  Questa è una visione ormai obsoleta che oggi deve misurarsi con nuove abitudini indotte dalle tecnologie, da nuovi valori emergenti e da target demograficamente più ‘maturi’.

Oggi l’utenza, prima di ‘scegliere di acquistare’ si interroga sul modo in cui raggiungere un luogo, vuole farlo in modo sostenibile e vuole spazi multifunzionali per non avere il senso di sprecare tempo.  Il centro commerciale diviene un polo ‘esperienziale’ in cui la leva che attrae e coinvolge l’utente non è unicamente l’acquisto, il consumo, ma un insieme di sensazioni piacevoli, di bellezza e accoglienza, di salubrità, intrattenimento e senso di sicurezza. Ecco perché l’architettura, oggi più che mai, deve tenere in considerazione quello che è l’individuo e il mondo in cui è immerso, provando a capire le aspettative delle persone e facilitandole”.

Una consapevolezza che Adolfo Suarez ha ben radicata quando aggiunge “Per noi di Lombardini22 la costruzione di un progetto parte dal bisogno profondo di comprendere, per dare una risposta efficace alla società che cambia.  In un certo senso il Retail anticipa perfino il lavoro di Doxa, perché è dominato dall’istinto di reagire per sopravvivere ed è importante che agisca ‘senza pregiudizi’”.

Dunque quali sono i format emergenti in città?“I centri commerciali più innovativi –racconta Scarpino - sono quelli costruiti nelle aree urbane, sono aperti e completamente integrati con il paesaggio. Funzionano perché soddisfano il bisogno delle persone di stare in posti che possano essere vissuti come piazze, perché la dimensione fisica e umana è importante. Cinema e food, in particolare, sono due modi di intrattenerci che stanno nelle nostre corde culturali. Poi l’acquisto viene dopo… e comunque l’e-commerce potrà darmi risparmio, ma non mi darà mai il piacere di una esperienza”.

Molti i casi eclatanti sviluppati all’estero, per esempio il complesso Bikini Berlin che sta trasformando la parte ovest di Berlino, un centro urbano e un universo sociale nel cuore della città. Come pure la rivitalizzazione di Coal Drops Yard a Londra. A Milano svetta City Life shopping District come pure l’operazione di Grandi Stazioni Retail che propone al grande bacino di utenza dei viaggiatori e degli abitanti una esaltante varietà di opzioni di acquisto rivolte anche al target del commuter-commerce (commercio che si integra con la mobilità). Anche Moretti, in qualità di sviluppatore, è dell’idea che si possa imparare molto dalle sperimentazioni in atto all’estero a patto che tutte le figure coinvolte lavorino ‘di concerto’.

Credo che oggi la grande sfida per il mondo del Retail sia di ritornare in città. E che i politici ci vedano come aggregatori di spazi mixed use. Ne è un esempio il nuovo progetto AURA, realizzato a Roma, con cui abbiamo recuperato uno spazio urbano degradato e lo abbiamo restituito alla città. Uno spazio che abbiamo lasciato parzialmente aperto e poroso creando nuove vie e percorsi”.

La messa a terra del “dream”

Al giornalista di Largo Consumo che dalla platea chiede di capire chi si assuma i costi di tutto ciò che non è strettamente Retail, Franco Guidi - AD Lombardini22 – ricorda che dovremmo sempre riuscire a mettere nella equazione anche il capitale sociale. “Il fatto che sia diminuita la criminalità o il degrado ha un valore per la città e gli operatori del settore dovrebbero tenere conto del fatto che questi luoghi abbandonati, o non presidiati, genererebbero dei costi invisibili su altri segmenti che oggi noi non vediamo. Ecco perché  la gestione della attività sociale diventerà in futuro un aspetto sempre più strategico e cruciale che richiederà molto pensiero per far sì che le persone possano avere spazi che ne condizionino in positivo i comportamenti”.  Non solo “tutto questo sforzo aumenta la reputazione della città – sottolinea Scarpino – ed anche questa voce va messo nel bilancio, è un investimento che andrebbe valorizzato”.

E allora quale messaggio per le istituzioni e la città?

Davanti a tempi così fluidi, è bello chiudere con la metafora proposta da Moretti. 

“Oltre alle vetrine c’è di più. Rivendico la nostra capacità di essere registi di un’area che ha una vocazione commerciale, ma che non è solo commerciale.  C’è tanto retail spento nella città perché manca una regia. Si tratta di assumersi la responsabilità di mettere insieme tanti soggetti (statistici, sociologi, progettisti) per fare un film che proietteremo ai clienti. Se la politica riuscirà a capire non solo quello che avviene in Italia ma anche all’estero sono certo che creeremo storie bellissimi di rivitalizzazione del tessuto urbano”.

Della stessa idea anche Scarpino: “Noi cittadini dovremmo avere la possibilità di vedere il film della città, starci bene e poterne godere. Un film che può rivelarsi di successo se la città offre infrastrutture, spazi comuni, entertainment e se c’è una regia che sa sintonizzarsi sui bisogni espressi dalla cittadinanza”.

 

 

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June 28, 2018
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June 28, 2018

Registi di bellezza

Ieri si è svolto l'evento "Retail Players. La dimensione urbana del Retail", il terzo evento del ciclo culturale Players che ha visto protagonisti Vilma Scarpino, Amministratore delegato e socia di Doxa Spa e Massimo Moretti, Presidente CNCC – Consiglio Nazionale Centri Commerciali, moderati da Adolfo Suarez.

Si è parlato di come oggi sia necessario riunire professionisti multidisciplinari per analizzare, comprendere e rispondere ai bisogni complessi delle persone e della città, creando esperienze coinvolgenti in cui accoglienza, qualità degli spazi, comfort e semplicità sono guidati dal valore assoluto della bellezza.

Origini

Sembrano lontani i tempi di Victor Gruen, l’ideatore riconosciuto del centro commerciale moderno (nel cui studio fece la “gavetta” Frank O. Gehry, così per dire). Gruen progettò all’inizio degli anni 1950 il Southdale Center, a Edina (Minnesota): un complesso formato da un grande parcheggio e da una struttura coperta che conteneva 72 vetrine e due grandi magazzini con funzione di àncore primarie (Donaldson’s e Dayton’s). La sua particolarità era che fino ad allora i centri commerciali erano “estroversi” e proiettavano vetrine e ingressi anche all’esterno, mentre Southdale aveva pareti cieche verso il parcheggio e tutte le attività erano focalizzate su gallerie interne (mall) climatizzate, il tutto sotto un unico tetto. L’intento di Gruen, architetto austriaco di origini ebraiche emigrato in America nel 1938, era quello di creare ciò che nella città americana all’epoca mancava: un organico effetto città (nel senso della città europea da cui lui proveniva), un contesto in cui le funzioni commerciali e urbane si mescolassero producendo un unicum originale. “Gruen ha riportato tutte le funzioni all’interno del manufatto, le ha collegate e le ha fatte vivere in simbiosi” – come dice, in una lusinghiera recensione del libro Progettare il Retail di Lombardini22, il direttore di RetailWatch Luigi Rubinelli, il quale sostiene che ancora oggi “Questa è la lezione del futuro dei centri commerciali”.

Crisi

Southdale è storicamente considerato il primo centro commerciale come oggi lo intendiamo. Ma proprio quel modello sembra oggi attraversare una profonda crisi. Lo stesso Victor Gruen disconoscerà in tarda età gli effetti della sua creazione, effetti “disurbanizzanti” (era il paradosso di cui si rammaricava) dei quali il suo modello architettonico non fu forse la causa diretta – poiché aveva nel DNA molti elementi del “fare città” – mentre lo fu più probabilmente tutta una serie di politiche urbanistiche e territoriali su cui i centri commerciali si sono innestati come ripetizione di una formula irrigidita. Così, decenni di storia dei centri commerciali ci hanno spesso restituito l’immagine di luoghi contrapposti alla città, artifici suburbani, simulazioni fantasmagoriche a rivestimento di una complessità di vita la cui unica ragion d’essere era lo shopping.

Da tempo negli USA si parla di “Retail Apocalypse”, un fenomeno che una recente analisi di Cushman & Wakefield sembra confermare anche per il 2018, anno in cui si prevede una crescita delle chiusure di negozi del 33% rispetto all’anno precedente. Una crisi che sembra investire anche l’Europa.

  “Il modello MALL è stato importato dagli Stati Uniti e ora ne stiamo importando il declino – dice Vilma Scarpino di Doxa, prima società a capitale italiano, per dimensioni e fatturato, di ricerche di mercato – e le ragioni del declino sono numerose, forse la più interessante riguarda l'impatto che il commercio elettronico ha sulle nostre abitudini di consumo.

Tempo fa, un titolo di Le Monde recitava: “Hypermarchés: le décline du modèle français”. Un recente reportage di Sky TG24 (del 5 maggio 2018) ha fatto un resoconto implacabile della situazione di alcune realtà locali italiane, soprattutto appartenenti al territorio bresciano, dove alcuni fallimenti sembrano però dovuti a errate valutazioni preliminari sulla localizzazione e sui bacini di utenza. Oppure, come spiega Alessio Merigo, direttore della Confesercenti di Brescia, perché dietro molte nuove aperture c’è spesso una mancata armonizzazione tra l’interesse commerciale e l’interesse edilizio, lasciando quest’ultimo prevalere.

Nuove formule

Oggi sappiamo che non può più essere così. I centri commerciali che perseverano in vecchie formule – generaliste, per esempio, e centrate sull’àncora del supermercato – sono destinati all’insuccesso. Le nuove formule che stanno emergendo nei centri di nuova generazione vedono in piena espansione altri ambiti, e i centri esistenti si stanno trasformando. Da qualche anno sui “tavoli da disegno” dei progettisti (se così si può dire) passano prevalentemente ristrutturazioni e/o ampliamenti legati alla riduzione dei supermercati e alla conseguente estensione di Food Hall e aree di intrattenimento: il Food sta raggiungendo mediamente il 25/35% della superficie; il Leisure (cinematografi, FEC, bowling ecc.) intorno al 25/30%; sta crescendo sempre più la parte dei Servizi (postali, farmacie, ambulatori, dentisti e, in un vicino futuro, studi professionali e anche, molto prevedibilmente, luoghi di culto e così via); le aree destinate al puro shopping subiscono una conseguente flessione. L’ultimo Mapic di Cannes, in questo senso, è stato una cartina di tornasole: lo shopping non è più il dominatore.

Cosa significa? Che il “centro commerciale”, così come lo abbiamo conosciuto finora, non esiste più e si sta trasformando sempre più in esperienza (tanto che si potrebbe anche pensare di cambiarne la definizione).

 “I centri commerciali (che non vorrei chiamare più cosi in futuro, mi sembra un nome superato) o meglio i Life Style Centers possono essere le nuove piazze, capaci di rivitalizzare e cucire settori di città: luoghi belli, puliti e sicuri dove ci si incontra, si fanno esperienze e si decide di passare del tempo”. Così afferma Massimo Moretti, Presidente CNCC.
Massimo Moretti

Sembra, quindi, che stia recuperando la dimensione del luogo (della vicinanza, della relazione, della qualità ‘atmosferica’ aldilà del puro acquisto), riducendo in questo modo quella distanza che lo ha separato, nell’immaginario comune, dalla città. E alla città, infatti, in varie forme ritorna.

 “Alcune grandi città metropolitane (Londra su tutte) stanno riprogettando le proprie stazioni (ferroviarie e metropolitane), per aiutare il flusso dei pendolari-compratori che acquistano online ogni genere di bene durante il viaggio di andata, la mattina presto, e ritirano la merce prima del viaggio di ritorno, nel tardo pomeriggio. In questo caso, l'esperienza di acquisto si fonde con la mobilità e impone nuovi riferimenti: accessibilità, sostenibilità, personalizzazione estrema”. Così riporta Vilma Scarpino, che proseguendo su Milano dice: “A Milano sono sempre più numerosi i single che sfruttano l'efficienza dei servizi di consegna a domicilio, come Amazon Prime Now, che garantisce la delivery in un’ora (oppure in fasce orarie prestabilire) di tutto quello che si può acquistare in un supermercato. Sempre a Milano, CityLife conferma la necessità di integrare lo shopping con un’esperienza di acquisto che sfoci nel ludico (parco pubblico, ampia scelta di ristoranti) e nel culturale (multisala)”.
Vilma Scarpino

Integrando diversi livelli di esperienza, il centro commerciale (se così vogliamo continuare a chiamarlo) deve diventare un condensatore sociale che assomigli sempre di più alla città stessa, fino a coincidere con essa. Rispondendo così a un fenomeno complesso: declino del “puro shopping”, impatto del commercio elettronico, problemi di localizzazione e dei bacini di utenza, necessità di armonizzare interessi commerciali ed edilizi (ed altro ancora). Emerge un doppio movimento: i grandi contenitori (più o meno suburbani) diventano sempre più complessi a livello funzionale e sociale; i nuovi sistemi retail (urbani) diventano veri e propri “pezzi di città”, cercando la massima porosità e permeabilità con il tessuto urbano circostante; mentre in tutti i casi si lasciano attraversare da nuove forme di comportamento.

Come agire di fronte a questo nuovo scenario?

In che modo decostruire vecchi format e progettarne di nuovi, integrati con la città e con la sua linfa vitale, affinché possano acquisire una dimensione “realmente” urbana (e non un surrogato)? E come contribuire a fare della città una “Retail Destination” attrattiva?

“Proviamo a partire dalla definizione originaria di centro commerciale - suggerisce Vilma Scarpino - ovvero un aggregato di negozi che diventano un edificio all’interno del quale le persone vanno a comprare.  Questa è una visione ormai obsoleta che oggi deve misurarsi con nuove abitudini indotte dalle tecnologie, da nuovi valori emergenti e da target demograficamente più ‘maturi’.

Oggi l’utenza, prima di ‘scegliere di acquistare’ si interroga sul modo in cui raggiungere un luogo, vuole farlo in modo sostenibile e vuole spazi multifunzionali per non avere il senso di sprecare tempo.  Il centro commerciale diviene un polo ‘esperienziale’ in cui la leva che attrae e coinvolge l’utente non è unicamente l’acquisto, il consumo, ma un insieme di sensazioni piacevoli, di bellezza e accoglienza, di salubrità, intrattenimento e senso di sicurezza. Ecco perché l’architettura, oggi più che mai, deve tenere in considerazione quello che è l’individuo e il mondo in cui è immerso, provando a capire le aspettative delle persone e facilitandole”.

Una consapevolezza che Adolfo Suarez ha ben radicata quando aggiunge “Per noi di Lombardini22 la costruzione di un progetto parte dal bisogno profondo di comprendere, per dare una risposta efficace alla società che cambia.  In un certo senso il Retail anticipa perfino il lavoro di Doxa, perché è dominato dall’istinto di reagire per sopravvivere ed è importante che agisca ‘senza pregiudizi’”.

Dunque quali sono i format emergenti in città?“I centri commerciali più innovativi –racconta Scarpino - sono quelli costruiti nelle aree urbane, sono aperti e completamente integrati con il paesaggio. Funzionano perché soddisfano il bisogno delle persone di stare in posti che possano essere vissuti come piazze, perché la dimensione fisica e umana è importante. Cinema e food, in particolare, sono due modi di intrattenerci che stanno nelle nostre corde culturali. Poi l’acquisto viene dopo… e comunque l’e-commerce potrà darmi risparmio, ma non mi darà mai il piacere di una esperienza”.

Molti i casi eclatanti sviluppati all’estero, per esempio il complesso Bikini Berlin che sta trasformando la parte ovest di Berlino, un centro urbano e un universo sociale nel cuore della città. Come pure la rivitalizzazione di Coal Drops Yard a Londra. A Milano svetta City Life shopping District come pure l’operazione di Grandi Stazioni Retail che propone al grande bacino di utenza dei viaggiatori e degli abitanti una esaltante varietà di opzioni di acquisto rivolte anche al target del commuter-commerce (commercio che si integra con la mobilità). Anche Moretti, in qualità di sviluppatore, è dell’idea che si possa imparare molto dalle sperimentazioni in atto all’estero a patto che tutte le figure coinvolte lavorino ‘di concerto’.

Credo che oggi la grande sfida per il mondo del Retail sia di ritornare in città. E che i politici ci vedano come aggregatori di spazi mixed use. Ne è un esempio il nuovo progetto AURA, realizzato a Roma, con cui abbiamo recuperato uno spazio urbano degradato e lo abbiamo restituito alla città. Uno spazio che abbiamo lasciato parzialmente aperto e poroso creando nuove vie e percorsi”.

La messa a terra del “dream”

Al giornalista di Largo Consumo che dalla platea chiede di capire chi si assuma i costi di tutto ciò che non è strettamente Retail, Franco Guidi - AD Lombardini22 – ricorda che dovremmo sempre riuscire a mettere nella equazione anche il capitale sociale. “Il fatto che sia diminuita la criminalità o il degrado ha un valore per la città e gli operatori del settore dovrebbero tenere conto del fatto che questi luoghi abbandonati, o non presidiati, genererebbero dei costi invisibili su altri segmenti che oggi noi non vediamo. Ecco perché  la gestione della attività sociale diventerà in futuro un aspetto sempre più strategico e cruciale che richiederà molto pensiero per far sì che le persone possano avere spazi che ne condizionino in positivo i comportamenti”.  Non solo “tutto questo sforzo aumenta la reputazione della città – sottolinea Scarpino – ed anche questa voce va messo nel bilancio, è un investimento che andrebbe valorizzato”.

E allora quale messaggio per le istituzioni e la città?

Davanti a tempi così fluidi, è bello chiudere con la metafora proposta da Moretti. 

“Oltre alle vetrine c’è di più. Rivendico la nostra capacità di essere registi di un’area che ha una vocazione commerciale, ma che non è solo commerciale.  C’è tanto retail spento nella città perché manca una regia. Si tratta di assumersi la responsabilità di mettere insieme tanti soggetti (statistici, sociologi, progettisti) per fare un film che proietteremo ai clienti. Se la politica riuscirà a capire non solo quello che avviene in Italia ma anche all’estero sono certo che creeremo storie bellissimi di rivitalizzazione del tessuto urbano”.

Della stessa idea anche Scarpino: “Noi cittadini dovremmo avere la possibilità di vedere il film della città, starci bene e poterne godere. Un film che può rivelarsi di successo se la città offre infrastrutture, spazi comuni, entertainment e se c’è una regia che sa sintonizzarsi sui bisogni espressi dalla cittadinanza”.

 

 

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