Appunti di un viaggio: FORESIGHT 2022
Data Centers of the future are here
Lo scorso 5 ottobre, presso l’Auditorum di Milano, si è svolto FORESIGHT 2022, evento annuale di Lombardini22 che quest’anno è andato “on stage” quasi in forma di spettacolo. Dato il luogo forse non poteva essere altrimenti, e però! È stato veramente spettacolare. Difficile riassumerlo in poche righe. Possiamo però dire che l’“In-between”, che ha accompagnato la preparazione dell’evento, è stato pienamente celebrato.
Le ore che abbiamo passato insieme ci hanno fatto sentire davvero “tra”, ovvero condividere il momento di passaggio e percepirne tutte le potenzialità.
Di questo ringraziamo ancora tutti i partecipanti, chi sul palco e chi in platea, che quest’anno ha anche visto la presenza della comunità allargata di Lombardini22, in carne e ossa e al gran completo.
D’altra parte, ha esordito Franco Guidi, per noi la fisicità è importante, siamo più di 400 persone sotto un unico tetto, nei momenti migliori gomito a gomito, e non è un caso.
Anche grazie a questa vicinanza, che genera dialogo, cresciamo e cerchiamo di trasformare le vulnerabilità e le inquietudini che stiamo vivendo in forza, ascolto reciproco e contributi utili a tutti.
ATTO PRIMO
Un’aragosta a centro tavola
È con questo tema che si apre FORESIGHT 2022, con l’invito di Stefano De Matteis, antropologo e sedicente “impiccione” che entra nella vita degli altri, a pensare le nostre vite individuali come fatto collettivo, costruzione sociale, cultura più che natura. Ma anche, attraverso queste qualità che ci caratterizzano, a imparare dalla natura per affrontare i nostri limiti e fragilità: dall’aragosta in particolare, che dismette il proprio carapace e si confronta “a nudo” con i momenti di crescita, quindi con il limite, la crisi, i passaggi di stato senza incaponirsi nella propria corazza.
Cosa possiamo fare noi? Tornare a riflettere sulle nostre gabbie, tra cui quel delirio di onnipotenza che ha rimosso la vulnerabilità, e l’alterità, dal nostro orizzonte mentale e trasformare il nostro stare al mondo come viventi tra altri viventi, per conservare soprattutto noi stessi. Come? Anche lavorando per piccoli gruppi, momenti di incontro – in questo il “tra” è fondamentale – per costruire un futuro in cui l’uomo ci sia ancora, ma da intendere come quel singolare collettivo che coincide con il futuro del mondo.
Si diceva città dei bit, si dirà nuova terra-formazione
Un mondo da comprendere nella sua trasformazione profonda, come dice Cosimo Accoto, filosofo che riflette sul digitale come nuova “terra-formazione, nuovo modo di abitare, nuova dimensione dello spazio e del tempo in cui viviamo. Ciò non è tanto un’innovazione quanto un vero e proprio cambio di civiltà che richiede altre mappe interpretative. Accoto ne segnala tre: la natura generativa e trasformativa del rapporto tra digitale e spazio, che riceve il proprio senso proprio dal codice software che lo attiva; la dimensione del tempo, che non subisce tanto una compressione o una velocizzazione ma un’anticipazione predittiva che ci proietta costantemente in un futuro prossimo e ci fa passare da una società cosiddetta dell’archivio a una società dell’oracolo; e la simulazione, il gemellaggio digitale con avatar attraverso cui immergeremo l’esperienza in altri possibili universi, o metaversi.
Avatar e metaverso o pelle e cloud di memoria?
Anche se per Daniela Lucangeli, psicologa dello sviluppo, l’avatar è la nostra stessa pelle e il metaverso in natura esiste già: nell’enigma dei ‘cloud di memoria’, una memoria prospettica che ci aiuta a selezionare ciò che è meglio per noi evitando gli errori del passato e che organizziamo in due allegoriche stanze, del buio (le nostre vulnerabilità) e della luce (i nostri successi), ma che abbiamo reso progressivamente non comunicanti proprio per rimuovere la fragilità dalla nostra coscienza.
Fragilità che sul palco Lucangeli non si cura di nascondere, generando con parole e postura davvero spoglie di qualsiasi “carapace” il momento più empatico di FORESIGHT.
Il suo è un invito è riaprire la porta che divide quelle stanze e accogliere, reintegrare la dimensione emotiva, scioglierne i cortocircuiti e imparare a convivere con le nostre debolezze: fare luce sul “buio”, insomma, senza peraltro oscurare la nostra stanza luminosa.
Ciò a beneficio di tutto il corpo, e non solo del nostro cervello inteso come organo, poiché ciò che chiamiamo “cervello” è in realtà un sistema distribuito i cui neuroni gemmano connessioni continue in tutti i tessuti: oggi piuttosto infiammati (e non solo metaforicamente) di diffuse inquietudini e affanni performativi.
Dear life-coach, what if Giacomo Leopardi…?
Ritorna così il tema del corpo, della pelle, e soprattutto il tema dell’apertura, della comunicazione tra stanze diverse (di sé) e del dialogo (con l’altro) come pratica di raffreddamento di quegli stati infiammatori, di riduzione dell’ansia, e forse di “felicità” (per dirla con una parola un po’ impegnativa). Il che è sensibilmente diverso da quell’industria della felicità, come l’ha definita William Davis, che ha fatto proliferare tutta una serie di sedicenti figure esperte – i “life-coach” o motivatori – contro cui si scaglia la scrittrice Enrica Tesio massacrando senza appello i più diffusi e irritanti luoghi comuni del nostro quotidiano più o meno recente: da “Sii te stesso” (quale? Si chiede Tesio) a “Esci dalla tua comfort zone” (ma perché? Il comfort non dovrebbe essere l’obiettivo?) e così via, in modo caustico ed esilarante.
Che poi, di questo passo cosa ne faremmo delle nostre ossessioni sacrosante e dei nostri stati depressivi senza i quali, peraltro, non esisterebbero alcune delle pagine più belle della nostra storia? Pensate se Leopardi fosse stato motivato con successo… che danno!
ATTO SECONDO
Ritorno in città
In tutto questo non abbiamo dimenticato le città, che rimangono lo sfondo su cui le idee, le suggestioni, i pungoli gentili dei nostri ospiti vorremmo siano messi a terra. E chi meglio di un “placemaker” può raccoglierne l’invito? Con Dario Di Vico, giornalista, ed Elena Granata, urbanista, siamo partiti da questi personaggi anomali e imprevedibili che abitano la scena urbana. Figure capaci di riscrivere i luoghi restituendo loro un senso (o creandolo di sana pianta), come Antonio Loffredo con le catacombe di Napoli, per esempio. Registi di intelligenza connettiva (e di competenze collettive) che possono aiutarci a immaginare e fare una città non divisiva: che è ciò che sta diventando la metropoli cosiddetta “attrattiva”.
Milano stessa rischia di non sfuggire a questo pericoloso destino. E se la pandemia ha dissolto la “febbrile eccitazione” che dal 2015 ha alimentato la sua crescita e la sua narrazione, ora è il momento di immaginare un altro modello e agire.
Per chi sarà la Milano del futuro?
“Città del sapere o città del mattone?”, si chiede Di Vico. O “Città-stato”? Non basta neanche la “città di 15 minuti” se in questa idea – dice Granata – non riconosciamo un concetto emozionale che esprime una domanda di comfort estesa a tutti i luoghi di relazione: che dovremmo soddisfare non compartimentando la vita come in un villaggio forse mai esistito, ma trovando una nuova sintesi tra luoghi di prossimità e luoghi dei flussi. E questa sintesi è nel “tra”.
Se dal Novecento abbiamo ereditato una città concepita come una sommatoria di scatole, ora non sono più adatte: dobbiamo rompere le scatole!
E rispondere all'anelito di vita che sta in mezzo, in-between, poiché la città è ciò che accade tra una casa e l'altra.
Musica maestro!
Quartetto d’archi in Sol minore di Claude Debussy, eseguito da Ambra Cusanna e Lycia Viganò (violino), Simone Libralon (viola) e Tobia Scarpolini (violoncello): un intervallo musicale che ci accompagna verso l’atto finale.
ATTO TERZO
Ah, Novecento Novecento!
Che secolo il Novecento! Apice di una razionalità che ha posto noi occidentali al centro del mondo, prodotto delizie raffinatissime (come il Debussy che abbiamo ascoltato) ma anche generato una quantità smisurata di “male”: un secolo inguardabile, per Alessandro Baricco, forse il più atroce della storia. Come uscirne? Come liberarci della sua eredità, dei suoi muri (delle sue scatole, appunto)? Oppure, in altri termini: a quale futuro ci apre? Possiamo parlarne in modo credibile? Impossibile, per Baricco, ma possiamo parlare del presente, di come siamo arrivati a questo punto: quale presente ci impedisce di immaginare plausibilmente il futuro? Con questa domanda si apre il suo attesissimo intervento.
In realtà lo stiamo costruendo, il futuro, ma siamo in un crinale: tra una rivoluzione che avanza e vecchie istituzioni che resistono.
La rivoluzione, ovviamente, è quella digitale, maturata negli ultimi 30 anni grazie a un tipo di intelligenza alternativa, visionaria, pionieristica e molto poco novecentesca che è anche frutto di un’inquietudine e di un’evidente reazione agli orrori del secolo scorso. Una rivoluzione che nasce con l’ambizione di creare una nuova civiltà – Baricco e Accoto, su questo, sarebbero d’accordo – e dal desiderio di un mondo diverso, più aperto, migliore.
Così i pionieri digitali hanno minato, intuitivamente, le fondamenta di almeno due piloni della vecchia razionalità: i muri, le separazioni, i confini; e gli esperti, gli specialisti e il loro ruolo sacerdotale, quelle élite di pochi e al riparo da sguardi indiscreti (permessi dai muri) che hanno potuto schiacciare, da soli!, tremendi bottoni.
Così il digitale ha fatto della società un campo aperto, intercomunicante e disintermediato, sciogliendo il mondo nel tempo e nello spazio, anche democratizzandolo. Questa rivoluzione – che è innanzitutto culturale, mentale, e poi anche tecnologica ma solo per necessità strumentali (ridurla a tecnologia sarebbe fuorviante, se non reazionario) – sta esprimendo la possibilità di una nuova forma di intelligenza umana.
Il presente visto dall’alto
Guardando dall’alto, sostiene Baricco, è questo l’unico grande movimento proiettato al futuro che caratterizza il nostro tempo. Il quale si scontra con la resistenza dell’intelligenza del secolo scorso e genera una pressione fortissima, come due placche che collidono e creano una faglia: vi siamo tutti immersi. Questa la mappa del presente.
Ora, fino a due anni fa ci si poteva chiedere quale delle due vincerà. Nonostante la resistenza intellettuale e morale delle vecchie istituzioni e generazioni, è sempre stato chiaro che il digitale avrebbe avuto la meglio, solo una questione di tempo.
Fino alla pandemia, che ha cambiato tutto.
Con il paradosso di un fenomeno tipicamente digitale, per velocità di propagazione nel campo aperto della nuova società, ma gestito con modalità del tutto novecentesche, di nuovo elitarie e verticistiche, quel processo è stato rallentato, o meglio scaricato, depotenziato (ma non i suoi strumenti, quelli sì che hanno accelerato). Per Baricco, con la pandemia il presente si è bloccato su una parola che lo sta dominando: paura (i media stessi la vendono quotidianamente), e da qui nasce l’impossibilità di parlare di futuro.
Videogame e desiderio
Quindi quale futuro? Molto difficile da dire. Possiamo però contare su un paio di cose.
Quando il futuro diventa illeggibile ed evanescente, dobbiamo diventare ancora più flessibili e veloci, muoverci come giocatori di videogame (che è l’immagine su cui è nata e si è costruita la civiltà digitale: dinamica, senza istruzioni, by trial and error). E soprattutto, se vogliamo vincere la paura dobbiamo dedicarci al suo contrario: che non è il coraggio. È il desiderio.
Se c’è un luogo che possa riaccendere le possibilità di immaginare, progettare, fare futuro, è il nostro desiderio. In dialogo con i desideri degli altri.
Sipario.
DI OGNUNO
Dal progetto DI OGNUNO (scopri di più sulla Reception di Ognuno), nato da un’iniziativa di HospitalityRiva in collaborazione con Lombardini22 con Village for all - V4A® Ospitalità Accessibile, nasce un documento digitale che accompagna in un viaggio nel mondo dell’ospitalità accessibile e della progettazione universale nel settore dell’accoglienza, alla ricerca di risposte e soluzioni per la creazione di spazi e servizi che rispondano alle esigenze DI OGNUNO.
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