Un bizzarro interno casalingo quello raffigurato dal pittore inglese Richard Hamilton nel 1956,opera manifesto esposta alla Whitechapel Gallery di Londra nella celebre mostra This Is Tomorrow che avrebbe consacrato la Pop Art inglese e il New Brutalism. È in quel clima culturale,attento alle nuove abitudini della città, all’emergente cultura di massa, alle nuove tecnologie, che ha origine il pensiero contemporaneo sulle nuove forme dell’abitare: condiviso, sociale, molteplice.
Il pensiero sulla città ha sviluppato da allora nuovi concetti. Con i membri del Team X prima e più tardi con figure come Colin Rowe, Jane Jacobs, Kevin Lynch, Robert Venturi e altri nasce una riflessione che va oltre il dogma funzionalista della separazione casa – lavoro – circolazione – tempo libero. Gli spazi intermedi, il ruolo dello spazio di uso pubblico collettivo e tutto ciò che nella residenza sta tra la porta di casa e il marciapiede, gli spazi interclusi, l’articolazione verso l’esterno, la flessibilità, occupano il centro della scena.
Il presupposto: la scala delle attività umane non è una funzione (un’addizione di funzioni), ma un insieme di “cluster” che articolano l’esperienza pubblica e privata in modi complessi, compenetrati, ibridi. Fino a sfumarli…
… A un certo punto, infatti, ci siamo trovati con le nuove tecnologie dell’informazione come dei “Tarzan in the Media Forest” (Toyo Ito). Prima ancora che il secolo finisse, nel mondo del telefono cellulare e delle email, l’individuo non era più assegnato a un posto determinato, a un luogo o a una località, e anche gli involucri si sono fatti meno rigidi e pesanti, sempre meno muri e sempre più membrane sensibili e capaci di reagire sotto il flusso delle informazioni.
mentre gli stessi spazi interni, più che luoghi dai contorni definiti, si sono trasformati in “ambienti” – interiorità, concavità – in cui immergersi non secondo una successione di parti ma come in un continuum. In questo nuovo quadro di riferimento, perfino il programma si è fatto non solo ibrido ed eterogeneo, ma addirittura indefinito.
Elogio della penombra, della luminosità diffusa, interni continui, architettura liberata dalla geometria,informale, frattale, minimale… E così arriviamo, teoricamente, all’oggi. Ma che cosa rende le case di oggi così diverse, così attraenti?
Affrontare il tema della residenza, oggi, è tanto urgente quanto saturo di incertezze. Di fronte all’attuale congiuntura che ci obbliga alla separazione fisica e al reciproco distanziamento nei luoghi pubblici (da frequentare brevemente e solo per inderogabili necessità), il nostro spazio privato è anche il nostro teatro sociale. Ed è un teatro sperimentale. Ci stiamo allenando a un’altra prossemica,fisica e virtuale a un tempo. Stiamo imparando a coniugare in modo nuovo prossimità e distanza, intimità e mediazione, spontaneità e formalizzazione. E tutto questo sta avvenendo in un punto, un luogo speciale, il “primo luogo”: la casa.
Nulla come il coronavirus ci ha messo di fronte all’abitare domestico come tema da ripensare anche radicalmente. Se oggi il fenomeno dirompente, in termini quantitativi, è la dimensione lavorativa che si installa in massa in quella residenziale, la portata di ciò che stiamo sperimentando nelle nostre abitazioni è più grande della semplice “ingerenza” del telelavoro. Lo stiamo vivendo come un fatto emergenziale, finirà. Ma quando e come? E soprattutto torneremo come prima? Se le misure di distanziamento sociale dovessero essere ricorrenti, cicliche (come sempre più voci stanno preconizzando), siamo destinati fin d’ora a ridiscutere molti dei nostri schemi consolidati: funzionali, relazionali e soprattutto spaziali. Lo spazio delle nostre case, innanzitutto.
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