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Intertwining - Il primo numero

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Il lancio ufficiale negli spazi Lombardini22
18/3/2019
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Il 12 marzo, negli spazi ibridi e accoglienti Lombardini22, è stato presentato ufficialmente il primo numero fondativo "Intertwining".

Una rivista che nasce e prende forma proprio in Lombardini22 grazie alla convergenza di alcuni episodi, come racconta l'editor Alessandro Gattara: l’idea di un dottorato di ricerca sui neuroni specchio condivisa con Franco Guidi, Ad di Lombardini22, che l’ha subito sostenuta; un convegno organizzato da Sarah Robinson negli Stati Uniti presso la scuola di Taliesin, da cui è nato il libro “Mind in Architecture: Neuroscience, Embodiment and the Future of Design”; da una prima conferenza dell’ANFA presso il Salk Institute, con Henry Mallgrave e Isabella Pasqualini; e da diversi e frequenti incontri successivi tra i personaggi che animano la rivista.

Per Davide Ruzzon, Editor Intertwining, Direttore TUNED e Direttore scientifico del Master NAAD, il tema chiave della rivista – l’esperienza dello spazio e la capacità di indagarne la percezione – è cruciale perché arricchisce il ruolo e il mestiere dell’architetto, dandogli una responsabilità non irrilevante nel gestire queste ricerche: le quali, sia detto ancora una volta, non hanno l’ambizione di produrre delle ricette, perché in un progetto le variabili sono infinite e la loro sintesi non può essere demandata a un algoritmo, ma risiede sempre nell’intuizione artistica. Tuttavia quelle variabili devono essere conosciute in tutta la loro complessità interdisciplinare: Intertwining è la piattaforma editoriale che si propone di raccontarle.

"Arte e scienza sono due modi di conoscere, entrambi radicati nell’esperienza. Li consideriamo non rivali, ma portatori di significato ugualmente necessari e complementari, nessuna disciplina ha un’esclusiva pretesa di verità."

Questo estratto dalla “Lettera dei direttori”, la quale introduce il numero inaugurale della rivista Intertwining, offre la prima chiave di lettura dei temi affrontati in questo nuovo progetto editoriale. Rivolta a comprendere l’esperienza dello spazio e della costruzione dell’architettura da un punto di vista corporeo oltre che cognitivo, la rivista dà voce alle scienze e alle arti insieme – con particolare attenzione ai contributi offerti dalle neuroscienze – poiché entrambe sono indagate come forme di conoscenza fondamentali per abbracciare la natura complessa di questo tema.

“Vogliamo esplorare l’esperienza dell’architettura".

Così dichiarano gli autori Alessandro Gattara, Sarah Robinson e Davide Ruzzon, un’esperienza che è sempre multidimensionale, multidirezionale e irriducibile a qualsiasi confine disciplinare che voglia circoscriverla in binari predefiniti. Ed è per questa ragione che la rivista coinvolge una pluralità di voci che comprendono diverse discipline: scienziati, filosofi, storici dell’arte, psicologi, antropologi, artisti e architetti sono affiancati e invitati a produrre ognuno il proprio “strato di verità”, componendo una costellazione di punti di vista specifici che si rimandano l’un l’altro, quindi diversi ma anche convergenti verso un orizzonte condiviso.

Realtà, esperienza, empatia

Così un maestro dell’architettura come Juhani Pallasmaa affronta il tema realtà/esperienza nell’arte e nella scienza riferendosi ampiamente all’opera di Olafur Eliasson, autore che, come sostiene Pallasmaa, ha portato l’esperienza artistica nel regno dei fenomeni scientifici più di altri artisti”. Lo stesso Eliasson è presente con un breve testo che, in forma poetica, invita a una speciale attenzione esperienziale allo spazio, alle diverse sensazioni che sollecita, al rapporto tra pensiero e azione. È uno “spazio sentito” ciò cui allude Eliasson, un’esperienza corporea, o più precisamente sensori-motoria:

“Riconosci la sensazione di voler agire ma non agire? / Tieni questa sensazione. / Quindi consulta la tua esperienza di azione empatica. / Ora fai una pausa. / Che sensazione dà la discrepanza tra il desiderio di agire e l’esperienza dell’azione? / Fai terminare la pausa”.

Parole che suonano veramente vicine a quelle della ricerca in campo neuroscientifico, di cui la rivista dà conto con un’ampia intervista a Vittorio Gallese, neuroscienziato cognitivo protagonista della scoperta dei neuroni specchio su cui si fonda la teoria della simulazione incarnata (“Le tue sensazioni sono conoscenza incarnata?” chiede, tra l’altro, Eliassonnel suo testo). Empatia è un’altra parola chiave, ripresa nel titolo del libro“Empatia degli spazi. Architettura e neuroscienze” di Henry Francis Mallgrave, autore presente con il saggio “Dall’oggetto all’esperienza: oltre la teoria”.

Milestones

Proposito della rivista è anche quello di omaggiare, in ogni numero, alcuni testi classici che rivestono oggi una particolare rilevanza: è il caso del lavoro di John Dewey, di cui è espressamente consigliata la lettura del discorso tenuto all’Accademia di Medicina di New York nel 1927, “Body and Mind”; e di un’altra pietra miliare come il libro di Richard Neutra “Progettare per sopravvivere” (1954), ricordato dal figlio Raymond Richard Neutra con la “fenomenologia del perché” e da Barbara Lamprecht nell’articolo “Rifiutare una pietra miliare del Modernismo”.

Città, spazio pubblico, salute

La dimensione urbana, nei suoi effetti psicologici, è indagata nell’intervento di Colin Ellard che, attraverso il suo laboratorio di psicologia urbana, si chiede come costruire e misurare una rinnovata Baukultur ispirandosi al pionieristico approccio psicogeografico di Guy Debord ma aggiornato con nuove misure e “una rigida dose di riduzionismo”. Mentre le ricerche accademiche presso l’Università La Sapienza di Roma, nel contributo di Elnaz Ghazi, sondanoi nuovi orizzonti e potenzialità dello spazio pubblico. Gli effetti dell’architettura sulla salute, sul benessere e sull’apprendimento sono trattati nel saggio di Susan Magsamen.

Condivisione

Infine il richiamo di Kevin Kelley Rooney sull’importanza dell’“esperienza del legame” – illustrata citandola simulazione incarnata di Vittorio Gallese, gli esperimenti spazio-temporali di Tomás Saraceno e l’esperienza dell’occluso di Alva Noë – ovvero della necessità di una dimensione intersoggettiva vincolante, che leghi ognuno a un “noi” collettivo nel nostro ambiente, su cui fondare lo scopo di questo primo numero di Intertwining: “riportare l’attenzione della scienza sugli archetipi di esperienze eterne e di modificare queste origini come fine dei loro sforzi”.

Esperienze eterne, quindi, o almeno antiche. Questa la sensazione anche espressa da Fulvio Irace, primo ospite a intervenire sui temi che Intertwining propone.

“Molte tematiche oggi attuali, come quelle sollevate delle neuroscienze, hanno avuto una formulazione molto articolata e piena di intuizioni fin dalla seconda metà dell’800. Faccio riferimento alla scuola viennese, nel cui ambito è nato il concetto di empatia (Einfühlung), ai contributi di Theodor Lipps, Robert Vischer, Wilhelm Worringer con la sua famosa tesi di dottorato del 1908 dal titolo “Astrazione ed Empatia”: empatia come corrispondenza del creatore e del pubblico con il mondo, astrazione come fenomeno di ritiro dal mondo, sublimazione di un grande ‘spavento’ che il mondo ha provocato”.

È lo sgomento dell’industrializzazione, che aveva ormai un secolo alle spalle e aveva cambiato tutto, i rapporti di produzione e di creazione, generando da una parte una grande euforia ma anche, in modo più sotterraneo, una paura tremenda.

“Ho sempre trovato molto significativo il fatto che l’idea, o l’ossessione, dell’indagine sui nostri meccanismi mentali nel rapportarci allo spazio – la stessa nozione di architettura come ‘arte dello spazio’ nasce in quel clima culturale con August Schmarsow e la sua teoria della Raumgestaltung (poi ripresa da Bruno Zevi in modo magistrale) – sia legata a questa dialettica: da una parte Joseph Paxton fa il Crystal Palace, madre di tutta l’architettura prefabbricata del mondo, mentre Victor Hugo dirà della Tour Eiffel che ha distrutto l’architettura, che non sarà più la stessa. Finisce il mondo ruskiniano, e tutto ciò suscita un movimento di ‘resistenza’, il desiderio di far rinascere il tema dell’empatia con la natura, portando studiosi e artisti a riflettere su un fenomeno che poi genererà l’organicismo del Liberty”.

Il processo di astrazione trova un culmine nei primi decenni del XX secolo, anche se in modo non lineare (il Bauhaus stesso è inizialmente una scuola sinestetica, in cui Itten sottopone gli studenti a preliminari esercizi di respirazione ritmica), e la linea maestra del razionalismo che enfatizza gli aspetti astratti, funzionali, costruttivisti ha infine il sopravvento. Ma la linea della corporeità, pur sconfitta o soffocata, non muore mai del tutto:

“Emerge in Alvar Aalto – prosegue Irace – che contesta i limiti del funzionalismo negli anni ’30 introducendo l’idea di un ‘funzionalismo psicologico’ (che ci porta di nuovo a Vienna, città di Freud e della psicanalisi); esplode in personalità isolate, come in Gaudì ma anche in Mollino, che ha posto con grande evidenza il tema dell’organicismo non solo in modo mimetico con i suoi mobili, ma anche ribaltando – nelle sue famose polaroid – la classica figura del razionalismo atemporale, l’uomo di Leonardo, sostituendola con il corpo della donna, forse anche come provocazione sul rapporto tra l’astratta ergonomia del design e la realtà cruda e diretta del corpo umano”.

Quindi, conclude Irace, sono istanze sempre presenti rispetto alle quali oggi saremmo in una terza o quarta fase:

“Le nuove tecnologie, e le neuroscienze per cui il cervello non è più oggetto di psicanalisi ma di indagini misurabili, ci riportano a una questione antica, ma con un’ottica e strumentazioni diverse. Ciò è esaltante e allo stesso tempo può preoccupare: perché non sappiamo ancora se tutto ciò vuol essere la ‘pietra filosofale’ che ambisce a spiegare il mondo, o aiutarci a capirne qualcosa di più”.

Interdisciplinarità

L’intreccio delle discipline è l’argomento affrontato dal filosofo Umberto Curi, che vede nel progetto di Intertwining un approccio interessante e innovativo.

“L’idea dell’intreccio dei saperi non è nuova ma ricorrente nella tradizione occidentale: parte dal riconoscimento della particolarità dei saperi con l’obiettivo della loro connessione, e potrebbe risalire ad Aristotele, passare per l’Enciclopedie illuminista – che la realizza però nella forma esplicita della giustapposizione di ambiti diversi – e per una versione più vicina a noi come il progetto dell’Enciclopedia Internazionale della Scienza Unificata di Chicago, negli anni ‘30 e ‘40, che aveva però un taglio riduzionistico in cui un ambito viene annesso a un altro dominante”.

Cosa succede qui invece? Non c’è giustapposizione né riduzionismo, ma si va oltre e si predica la connessione, l’intreccio. Si parla di arte e scienza non come qualcosa di radicalmente diverso – una libera e anarchica ispirata alla fantasia creativa, l’altra conforme alle regole e a parametri e protocolli di ricerca inviolabili – ma di cose di cui è possibile una commistione. Su quale base? Sono due forme di conoscenza! Che lo sia la scienza è acquisito, che lo sia l’arte non ancora altrettanto. Eppure cos’è l’arte del ‘900? È ricerca intellettuale, quindi una forma di sapere.

Golem

E dalla poesia prende spunto Angela Vettese, per evidenziare come l’opera di Olafur Eliasson sia tutto un tentativo di abitare poeticamente – dal Weather Project del 2003 al progetto Little Sun del 2012 – non necessariamente le abitazioni ma la luce, lo spazio pubblico, un continente intero e quindi il mondo. Lo stesso Eliasson, in un saggio successivo a quello pubblicato in Intertwining, si riferisce a John Dewey, l’autore di “Art as Experience” che ha ribaltato l’idea romantica dell’arte come espressione della sensazione dell’autore a favore di un’arte come “pensare facendo”, che accorda il pensiero con la mano, o il corpo con lo spirito se vogliamo.

“Da tempo le neuroscienze vanno in questa direzione, quindi non siamo all’inizio ma a uno stadio già piuttosto avanzato, ormai sappiamo che Dewey aveva ragione, ma siamo al punto in cui è lecito chiedersi quanta fiducia riporre nel fisicalismo. Ci si chiede, cioè, quanto la neuroscienza possa aiutare o se e dove si debba arrestare. La recente letteratura sulla “progettazione del pensiero” – anche all’interno delle aziende, nella leadership – tende a spostarsi sempre più in questi territori: sei un buon capo se riesci a sollecitare l’ossitocina, a far secernere l’ormone dell’attaccamento nei tuoi dirigenti, se coloro che lavorano con te usano bene il cortisolo, l’ormone dello stress, per eccitarsi positivamente senza stancarsi. Siamo nel corso di una meditazione su quanto le sostanze prodotte dal cervello stiano all’origine non solo dell’arte ma dell’opera dell’uomo in generale”.

Nell’arte visiva l’aspetto del fare/pensare è acquisito da tempo: non si fa più arte esprimendo se stessi, ma si applica la categoria del “come se”, o del “facciamo che io ero” dei bambini, mettendo in forma un mondo ipotetico (d’altra parte anche nella scienza l’eliocentrismo è nato da un’ipotesi, da un “come se”, ma se i nostri sensi sbagliassero?) per poi vedere cosa succede. Quindi abbiamo bisogno di una voglia di immaginare, di creare pensiero, il che nasce da un’eccitazione. Che ruolo hanno in tale processo queste sostanze?

“Una serie di ricerche sul brain imaging, tra Scozia, Boston e altri centri d’eccellenza sta indagando su cosa stimola il loro muoversi: c’è uno stimolo creativo esterno che le produce? O se riusciamo a generarle diamo luogo alla creatività? Non è una questione banale, perché se fosse vera la seconda, arriveremmo al golem, a un robot organico istruito non solo ad agire ma anche a sentire. Siamo sulla soglia di temi così interessanti e anche così antichi – golem è infatti una parola ebraica – che le neuroscienze stanno alimentando in modo esponenziale da almeno dieci anni”.

È da Cartesio che la questione della connessione corpo-mente è al centro del dibattito nella cultura occidentale (quella orientale non ha mai dubitato che mente e corpo fossero connessi), ma adesso abbiamo degli strumenti in più per capirla forse meglio: ed è la direzione giusta della nostra cultura, perché critica se stessa.

Scarica il Position Paper e sfoglia tutte le foto dell'evento.

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March 18, 2019
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March 18, 2019

Intertwining - Il primo numero

Il 12 marzo, negli spazi ibridi e accoglienti Lombardini22, è stato presentato ufficialmente il primo numero fondativo "Intertwining".

Una rivista che nasce e prende forma proprio in Lombardini22 grazie alla convergenza di alcuni episodi, come racconta l'editor Alessandro Gattara: l’idea di un dottorato di ricerca sui neuroni specchio condivisa con Franco Guidi, Ad di Lombardini22, che l’ha subito sostenuta; un convegno organizzato da Sarah Robinson negli Stati Uniti presso la scuola di Taliesin, da cui è nato il libro “Mind in Architecture: Neuroscience, Embodiment and the Future of Design”; da una prima conferenza dell’ANFA presso il Salk Institute, con Henry Mallgrave e Isabella Pasqualini; e da diversi e frequenti incontri successivi tra i personaggi che animano la rivista.

Per Davide Ruzzon, Editor Intertwining, Direttore TUNED e Direttore scientifico del Master NAAD, il tema chiave della rivista – l’esperienza dello spazio e la capacità di indagarne la percezione – è cruciale perché arricchisce il ruolo e il mestiere dell’architetto, dandogli una responsabilità non irrilevante nel gestire queste ricerche: le quali, sia detto ancora una volta, non hanno l’ambizione di produrre delle ricette, perché in un progetto le variabili sono infinite e la loro sintesi non può essere demandata a un algoritmo, ma risiede sempre nell’intuizione artistica. Tuttavia quelle variabili devono essere conosciute in tutta la loro complessità interdisciplinare: Intertwining è la piattaforma editoriale che si propone di raccontarle.

"Arte e scienza sono due modi di conoscere, entrambi radicati nell’esperienza. Li consideriamo non rivali, ma portatori di significato ugualmente necessari e complementari, nessuna disciplina ha un’esclusiva pretesa di verità."

Questo estratto dalla “Lettera dei direttori”, la quale introduce il numero inaugurale della rivista Intertwining, offre la prima chiave di lettura dei temi affrontati in questo nuovo progetto editoriale. Rivolta a comprendere l’esperienza dello spazio e della costruzione dell’architettura da un punto di vista corporeo oltre che cognitivo, la rivista dà voce alle scienze e alle arti insieme – con particolare attenzione ai contributi offerti dalle neuroscienze – poiché entrambe sono indagate come forme di conoscenza fondamentali per abbracciare la natura complessa di questo tema.

“Vogliamo esplorare l’esperienza dell’architettura".

Così dichiarano gli autori Alessandro Gattara, Sarah Robinson e Davide Ruzzon, un’esperienza che è sempre multidimensionale, multidirezionale e irriducibile a qualsiasi confine disciplinare che voglia circoscriverla in binari predefiniti. Ed è per questa ragione che la rivista coinvolge una pluralità di voci che comprendono diverse discipline: scienziati, filosofi, storici dell’arte, psicologi, antropologi, artisti e architetti sono affiancati e invitati a produrre ognuno il proprio “strato di verità”, componendo una costellazione di punti di vista specifici che si rimandano l’un l’altro, quindi diversi ma anche convergenti verso un orizzonte condiviso.

Realtà, esperienza, empatia

Così un maestro dell’architettura come Juhani Pallasmaa affronta il tema realtà/esperienza nell’arte e nella scienza riferendosi ampiamente all’opera di Olafur Eliasson, autore che, come sostiene Pallasmaa, ha portato l’esperienza artistica nel regno dei fenomeni scientifici più di altri artisti”. Lo stesso Eliasson è presente con un breve testo che, in forma poetica, invita a una speciale attenzione esperienziale allo spazio, alle diverse sensazioni che sollecita, al rapporto tra pensiero e azione. È uno “spazio sentito” ciò cui allude Eliasson, un’esperienza corporea, o più precisamente sensori-motoria:

“Riconosci la sensazione di voler agire ma non agire? / Tieni questa sensazione. / Quindi consulta la tua esperienza di azione empatica. / Ora fai una pausa. / Che sensazione dà la discrepanza tra il desiderio di agire e l’esperienza dell’azione? / Fai terminare la pausa”.

Parole che suonano veramente vicine a quelle della ricerca in campo neuroscientifico, di cui la rivista dà conto con un’ampia intervista a Vittorio Gallese, neuroscienziato cognitivo protagonista della scoperta dei neuroni specchio su cui si fonda la teoria della simulazione incarnata (“Le tue sensazioni sono conoscenza incarnata?” chiede, tra l’altro, Eliassonnel suo testo). Empatia è un’altra parola chiave, ripresa nel titolo del libro“Empatia degli spazi. Architettura e neuroscienze” di Henry Francis Mallgrave, autore presente con il saggio “Dall’oggetto all’esperienza: oltre la teoria”.

Milestones

Proposito della rivista è anche quello di omaggiare, in ogni numero, alcuni testi classici che rivestono oggi una particolare rilevanza: è il caso del lavoro di John Dewey, di cui è espressamente consigliata la lettura del discorso tenuto all’Accademia di Medicina di New York nel 1927, “Body and Mind”; e di un’altra pietra miliare come il libro di Richard Neutra “Progettare per sopravvivere” (1954), ricordato dal figlio Raymond Richard Neutra con la “fenomenologia del perché” e da Barbara Lamprecht nell’articolo “Rifiutare una pietra miliare del Modernismo”.

Città, spazio pubblico, salute

La dimensione urbana, nei suoi effetti psicologici, è indagata nell’intervento di Colin Ellard che, attraverso il suo laboratorio di psicologia urbana, si chiede come costruire e misurare una rinnovata Baukultur ispirandosi al pionieristico approccio psicogeografico di Guy Debord ma aggiornato con nuove misure e “una rigida dose di riduzionismo”. Mentre le ricerche accademiche presso l’Università La Sapienza di Roma, nel contributo di Elnaz Ghazi, sondanoi nuovi orizzonti e potenzialità dello spazio pubblico. Gli effetti dell’architettura sulla salute, sul benessere e sull’apprendimento sono trattati nel saggio di Susan Magsamen.

Condivisione

Infine il richiamo di Kevin Kelley Rooney sull’importanza dell’“esperienza del legame” – illustrata citandola simulazione incarnata di Vittorio Gallese, gli esperimenti spazio-temporali di Tomás Saraceno e l’esperienza dell’occluso di Alva Noë – ovvero della necessità di una dimensione intersoggettiva vincolante, che leghi ognuno a un “noi” collettivo nel nostro ambiente, su cui fondare lo scopo di questo primo numero di Intertwining: “riportare l’attenzione della scienza sugli archetipi di esperienze eterne e di modificare queste origini come fine dei loro sforzi”.

Esperienze eterne, quindi, o almeno antiche. Questa la sensazione anche espressa da Fulvio Irace, primo ospite a intervenire sui temi che Intertwining propone.

“Molte tematiche oggi attuali, come quelle sollevate delle neuroscienze, hanno avuto una formulazione molto articolata e piena di intuizioni fin dalla seconda metà dell’800. Faccio riferimento alla scuola viennese, nel cui ambito è nato il concetto di empatia (Einfühlung), ai contributi di Theodor Lipps, Robert Vischer, Wilhelm Worringer con la sua famosa tesi di dottorato del 1908 dal titolo “Astrazione ed Empatia”: empatia come corrispondenza del creatore e del pubblico con il mondo, astrazione come fenomeno di ritiro dal mondo, sublimazione di un grande ‘spavento’ che il mondo ha provocato”.

È lo sgomento dell’industrializzazione, che aveva ormai un secolo alle spalle e aveva cambiato tutto, i rapporti di produzione e di creazione, generando da una parte una grande euforia ma anche, in modo più sotterraneo, una paura tremenda.

“Ho sempre trovato molto significativo il fatto che l’idea, o l’ossessione, dell’indagine sui nostri meccanismi mentali nel rapportarci allo spazio – la stessa nozione di architettura come ‘arte dello spazio’ nasce in quel clima culturale con August Schmarsow e la sua teoria della Raumgestaltung (poi ripresa da Bruno Zevi in modo magistrale) – sia legata a questa dialettica: da una parte Joseph Paxton fa il Crystal Palace, madre di tutta l’architettura prefabbricata del mondo, mentre Victor Hugo dirà della Tour Eiffel che ha distrutto l’architettura, che non sarà più la stessa. Finisce il mondo ruskiniano, e tutto ciò suscita un movimento di ‘resistenza’, il desiderio di far rinascere il tema dell’empatia con la natura, portando studiosi e artisti a riflettere su un fenomeno che poi genererà l’organicismo del Liberty”.

Il processo di astrazione trova un culmine nei primi decenni del XX secolo, anche se in modo non lineare (il Bauhaus stesso è inizialmente una scuola sinestetica, in cui Itten sottopone gli studenti a preliminari esercizi di respirazione ritmica), e la linea maestra del razionalismo che enfatizza gli aspetti astratti, funzionali, costruttivisti ha infine il sopravvento. Ma la linea della corporeità, pur sconfitta o soffocata, non muore mai del tutto:

“Emerge in Alvar Aalto – prosegue Irace – che contesta i limiti del funzionalismo negli anni ’30 introducendo l’idea di un ‘funzionalismo psicologico’ (che ci porta di nuovo a Vienna, città di Freud e della psicanalisi); esplode in personalità isolate, come in Gaudì ma anche in Mollino, che ha posto con grande evidenza il tema dell’organicismo non solo in modo mimetico con i suoi mobili, ma anche ribaltando – nelle sue famose polaroid – la classica figura del razionalismo atemporale, l’uomo di Leonardo, sostituendola con il corpo della donna, forse anche come provocazione sul rapporto tra l’astratta ergonomia del design e la realtà cruda e diretta del corpo umano”.

Quindi, conclude Irace, sono istanze sempre presenti rispetto alle quali oggi saremmo in una terza o quarta fase:

“Le nuove tecnologie, e le neuroscienze per cui il cervello non è più oggetto di psicanalisi ma di indagini misurabili, ci riportano a una questione antica, ma con un’ottica e strumentazioni diverse. Ciò è esaltante e allo stesso tempo può preoccupare: perché non sappiamo ancora se tutto ciò vuol essere la ‘pietra filosofale’ che ambisce a spiegare il mondo, o aiutarci a capirne qualcosa di più”.

Interdisciplinarità

L’intreccio delle discipline è l’argomento affrontato dal filosofo Umberto Curi, che vede nel progetto di Intertwining un approccio interessante e innovativo.

“L’idea dell’intreccio dei saperi non è nuova ma ricorrente nella tradizione occidentale: parte dal riconoscimento della particolarità dei saperi con l’obiettivo della loro connessione, e potrebbe risalire ad Aristotele, passare per l’Enciclopedie illuminista – che la realizza però nella forma esplicita della giustapposizione di ambiti diversi – e per una versione più vicina a noi come il progetto dell’Enciclopedia Internazionale della Scienza Unificata di Chicago, negli anni ‘30 e ‘40, che aveva però un taglio riduzionistico in cui un ambito viene annesso a un altro dominante”.

Cosa succede qui invece? Non c’è giustapposizione né riduzionismo, ma si va oltre e si predica la connessione, l’intreccio. Si parla di arte e scienza non come qualcosa di radicalmente diverso – una libera e anarchica ispirata alla fantasia creativa, l’altra conforme alle regole e a parametri e protocolli di ricerca inviolabili – ma di cose di cui è possibile una commistione. Su quale base? Sono due forme di conoscenza! Che lo sia la scienza è acquisito, che lo sia l’arte non ancora altrettanto. Eppure cos’è l’arte del ‘900? È ricerca intellettuale, quindi una forma di sapere.

Golem

E dalla poesia prende spunto Angela Vettese, per evidenziare come l’opera di Olafur Eliasson sia tutto un tentativo di abitare poeticamente – dal Weather Project del 2003 al progetto Little Sun del 2012 – non necessariamente le abitazioni ma la luce, lo spazio pubblico, un continente intero e quindi il mondo. Lo stesso Eliasson, in un saggio successivo a quello pubblicato in Intertwining, si riferisce a John Dewey, l’autore di “Art as Experience” che ha ribaltato l’idea romantica dell’arte come espressione della sensazione dell’autore a favore di un’arte come “pensare facendo”, che accorda il pensiero con la mano, o il corpo con lo spirito se vogliamo.

“Da tempo le neuroscienze vanno in questa direzione, quindi non siamo all’inizio ma a uno stadio già piuttosto avanzato, ormai sappiamo che Dewey aveva ragione, ma siamo al punto in cui è lecito chiedersi quanta fiducia riporre nel fisicalismo. Ci si chiede, cioè, quanto la neuroscienza possa aiutare o se e dove si debba arrestare. La recente letteratura sulla “progettazione del pensiero” – anche all’interno delle aziende, nella leadership – tende a spostarsi sempre più in questi territori: sei un buon capo se riesci a sollecitare l’ossitocina, a far secernere l’ormone dell’attaccamento nei tuoi dirigenti, se coloro che lavorano con te usano bene il cortisolo, l’ormone dello stress, per eccitarsi positivamente senza stancarsi. Siamo nel corso di una meditazione su quanto le sostanze prodotte dal cervello stiano all’origine non solo dell’arte ma dell’opera dell’uomo in generale”.

Nell’arte visiva l’aspetto del fare/pensare è acquisito da tempo: non si fa più arte esprimendo se stessi, ma si applica la categoria del “come se”, o del “facciamo che io ero” dei bambini, mettendo in forma un mondo ipotetico (d’altra parte anche nella scienza l’eliocentrismo è nato da un’ipotesi, da un “come se”, ma se i nostri sensi sbagliassero?) per poi vedere cosa succede. Quindi abbiamo bisogno di una voglia di immaginare, di creare pensiero, il che nasce da un’eccitazione. Che ruolo hanno in tale processo queste sostanze?

“Una serie di ricerche sul brain imaging, tra Scozia, Boston e altri centri d’eccellenza sta indagando su cosa stimola il loro muoversi: c’è uno stimolo creativo esterno che le produce? O se riusciamo a generarle diamo luogo alla creatività? Non è una questione banale, perché se fosse vera la seconda, arriveremmo al golem, a un robot organico istruito non solo ad agire ma anche a sentire. Siamo sulla soglia di temi così interessanti e anche così antichi – golem è infatti una parola ebraica – che le neuroscienze stanno alimentando in modo esponenziale da almeno dieci anni”.

È da Cartesio che la questione della connessione corpo-mente è al centro del dibattito nella cultura occidentale (quella orientale non ha mai dubitato che mente e corpo fossero connessi), ma adesso abbiamo degli strumenti in più per capirla forse meglio: ed è la direzione giusta della nostra cultura, perché critica se stessa.

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